lunedì 20 settembre 2010

Non bussare alla mia porta

Non bussare alla mia porta (Don’t Come Knocking) è un film del 2005 diretto da Wim Wenders e scritto dallo stesso Wenders insieme a Sam Shepard, che ne è anche il protagonista. I due avevano già lavorato insieme, vent'anni prima, in Paris, Texas.
È stato presentato in concorso al 58° Festival di Cannes.
Wim Wenders e gli iùesei, un rapporto che negli ultimi anni si è andato intensificando non sempre con risultati soddisfacenti sul piano cinematografico. Se nel film precedente a questo, La terra del'abbondanza, la paranoia di uno diventava la paranoia di un’intera nazione, anche stavolta, pur nella differenza del tema, lo sguardo è ad un niente dall’allargarsi (a pensarci bene chi non ha bisogno di un padre?).
Il tema è quello della paternità ignorata con la quale Howard Spence, divo del western in disarmo, si trova a dovere fare i conti, tra l’altro doppi visto che dopo aver appreso dalla propria madre di d’avere un figlio di cui ignorava l’esistenza, a quest’ultimo si aggiungerà anche una figlia con tanto di urna funeraria della madre al seguito, entrambi frutti di scorribande giovanili quando la celebrità pagava in termini di successo sessuale.
Il Padre a sua insaputa è Howard Spence (Sam Shepard, sceneggiatore assieme a Wenders come fu per Paris Texas), una sorta di anti-John Wayne che all’inizio fugge a cavallo da un set divenuto troppo stretto dove si sta girando Phantom of desert, cercando, come gli suggerisce il titolo stesso del film, di diventare qualcosa di simile ad un fantasma, liberandosi appena può di speroni, stivali, cavallo.
Nelle peregrinazioni di Spence, dal set alla casa materna, da questa alla città dove vive il figlio sconosciuto, viaggi in sostanza dal massimo della finzione (il set), al massimo del realismo (la vita vera), c’è molto, per non dire moltissimo, del cinema di Wenders, un cinema spesso alle prese con personaggi alle prese con movimenti più o meno falsi, più o meno immaginari, un cinema che altrettanto spesso ha saputo regalare immagini di grande forza.



Anche stavolta è così con le rocce a forma di occhi attraverso le quali si scorge il cielo azzurro, o il giocatore di golf, borsa con le mazze sulle spalle, che attraversa la freeway che taglia in due il deserto.
 Quello di Wenders è un cinema refrattario alle mode, ma anche un cinema che si porta dietro, assieme ai pregi, dei difetti, ad esempio la sensazione che in diversi momenti si fermi a pestare l’acqua nel mortaio, un po’ come un profeta che non riesce più a trovare le parole adatte a descrivere quello che sarà, e anche Non bussare alla mia porta non fa eccezione.

Alla fine il film nel film, che è un film western mentre il film che lo contiene non lo è, si farà (un assicuratore interpretato da Tim Roth tampina Spence fino a riportarlo ammanettato sul set) e ne vediamo perfino il finale (Spence in sella che impenna il cavallo contro il cielo) perché il cinema, dentro e fuori, continua nonostante tutto.
 A dispetto del titolo che ci tiene a mantenere le distanze, il film sembra un invito rivolto magari a tutti quelli che credono che il western sia il genere per antonomasia, quello di "Qui siamo nel West dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda".
A dispetto di tutto…
Come sempre nei film di Wenders, la fotografia è particolarmente curata. In questo film, girato in Super 35 mm, Wenders e Franz Lustig si sono ispirati enfaticamente ai dipinti di Edward Hopper.


«Perche far passare tanto tempo?», chiede una ragazza bionda ed esile a un uomo maturo, dal volto segnato. «Perché non sapevo che stava passando», risponde lui, seduto su un divano in mezzo a una strada, circondato dai detriti degli oggetti, i mobili, gli strumenti che suo figlio ha buttato dalla finestra per liberarsi di tutto, di un faticoso passato senza padre e di un futuro che la ricomparsa improvvisa dell’uomo rende, se è possibile, ancora più doloroso. Quasi piangendo, la racconta, il giovane LarI al vecchio Howard, tutta la fatica che ha fatto a crescere senza di lui, il senso di vuoto e di vertigine; finché «un giorno tutto è finito, sparito, e io non voglio ricominciare a cadere».

Jarmusch e Wenders non si sono mai visti in vita loro, ma raccontano (quasi) la stessa storia e cominciano (quasi) allo stesso modo. Nubi grigie e malinconiche per Jarmusch, nuvole lievi e svelte per Wenders, che ottiene anche una specie di effetto-Magritte inquadrandole da dietro un paio di occhi, in realtà due strani buchi fra le rocce di un canyon. Scritto e interpretato dall’ultimo cowboy Sam Shepard, Don’t Come Knocking comincia infatti come un western: il western che il divo in declino Howard Spence (Shepard) sta girando nello Utah, ma da cui scappa letteralmente al galoppo per andar in cerca del suo passato. 



A due giorni dal Palmares, a Cannes è momento di Wenders e del suo "Don't come knocking". Un film che rivela totalmente il grande amore del regista tedesco per la cultura a stelle e strisce: "Sono cresciuto a Berlino, quando ho scoperto nella musica, nei libri e nei film il western americano, ho deciso che per me quello era il luogo ideale del pianeta". E il film è un omaggio al cantore dell'epopea della conquista del west, John Ford, alla mitologia dell'ovest e alla solitudine dell'uomo davanti ai grandi spazi.


Non è la replica di «Paris, Texas», ma anche Butte, Montana è una cittadina-fantasma sperduta sotto il Grande Cielo che sembra inventata apposta per dilatare l'occhio dell’anima di Wim Wenders. In «Don't Come Knocking» incarna l'ultima frontiera del declinante divo del cinema Howard Spence (Sam Shepard), che ha appena appreso dalla vecchia madre (Eva Marie Saint) di averci lasciato crescere un figlio mai conosciuto, fugace corollario di uno dei troppi amori della sua vita spericolata. Con questo film che può degnamente aspirare alla Palma il sessantenne regista di Dusseldorf ritrova, insomma, il nerbo drammaturgico a più riprese sperperato perfezionando, nel contempo, il consueto feeling con le vertiginose vibrazioni del paesaggio umano e naturale americano.



«Ho trovato delle droghe che mi aiutano a superare la paura dell'aereo». Così, scherzando (ma chissà...), Sam Shepard ha commentato la propria presenza a Cannes per Don't Come Knocking, film in concorso del quale è sceneggiatore e attore protagonista. La regia è di Wim Wenders, habitué di Cannes (nonché Palma d'oro nel 1984 con Paris, Texas, scritto dallo stesso Shepard), ma la notizia è proprio la presenza di questo scrittore/attore che è un'icona dell'altra America, quella marginale, onesta, democratica che più ci piace.

Wim ha ritrovato Wenders. Il cinefilo tedesco con gli occhiali da intellettuale e il ricciolo imbianchito e scomposto (ma ora porta anche il sigaro hollywoodiano), cresciuto col cielo plumbeo sopra Berlino è tornato con Don't come knocking (Non bussare alla porta), nel sole del West caro a John Ford: ma non più la troppo turistica Monument Valley, meglio le rocce deserte dello Utah. «E'sempre la terra mitica - dice - scoperta da cinema e musica, un mondo ideale e universale in cui mi sono sempre sentito a casa.

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