"Faccio il mestiere più inutile del mondo, ma resto a Hollywood perché non ho il coraggio di rifiutare i soldi". Selvaggio, scostante e intrattabile, diviso fra tragedie personali, colpi di testa esistenziali e totale immersione nel "metodo" che ha reso celebre l'Actor's studio, Marlon Brando ha attraversato quarant'anni di cinema tra interpretazioni magistrali e partecipazioni bislacche ma miliardarie a film di valore più che dubbio, "modificando comunque - come ha scritto il critico David Thomson - sia nei suoi lunghi ritiri che nei suoi migliori lavori il nostro modo di intendere la recitazione".
Nato il 3 aprile del 1924 a Omaha, Nebraska, fin dagli esordi indicato come l'erede di Lawrence Olivier, Brando mostrò immediatamente di essere assai più pigro, meno ambizioso, più tormentato ma anche più sensibile al denaro dell'illustre collega inglese. Padre spirituale dei ribelli senza causa (come James Dean, che per tutta la sua breve vita lo ebbe come modello e cercò di imitarlo), Brando ha incarnato la figura dell'attore con la A maiuscola e come molti di questa elite di interpreti a vissuto, con il proprio mestiere, in un costante rapporto amore-odio, di esaltazione e disillusione. Macchina da presa
dalla fisicità prima minacciosa e sensuale poi fin troppo debordante, Brando è stato candidato all'Oscar 8 volte vincendone 2 ('54 e '72). Quando, nel 1951 (Un tram che si chiama desiderio), irrompe sullo schermo la canottiera immacolata di Kowalski-Brando, che diventerà un cult per ogni macho, l'attore ha in realtà già dato prova di straordinarie doti di immedesimazione in Uomini, un aspro melò di Fred Zinneman dell'anno precedente. Qui Brando è un reduce paraplegico, disperato e introverso, che recita praticamente solo con il volto.
Con Un tram che si chiama desiderio però, che aveva già interpretato a teatro, inizia la costruzione dell'icona-Brando, brutale e attraente, virile e violento, seduttivo e pericoloso. Quello che molti definirono il "Metodo al lavoro", era un attore già formato
e, con la complicità del regista Elia Kazan, trasformò la piece di Tennessee Williams nella storia di Kowalski più che in quella di Blanche (Vivien Leigh). D'altra parte fu con un pugno di film tutti interpretati in questo decennio che il volto e il corpo di Brando vennero consegnati alla leggenda. Con Kazan (che ancora recentemente ha sostenuto senza falsa modestia di essere stato il regista ad aver meglio impiegato Brando) l'attore recita poi in Viva Zapata (1952) e Fronte del porto (1954), che gli frutta il primo Oscar. E in un film che la critica ha sempre complessivamente giudicato mediocre ed ambiguo, nonostante gli otto Oscar, a rifulgere è proprio l'interpretazione di Brando, perfezionistica e a tratti perfino compiaciuta, ma incancellabile soprattutto in alcune scene, come quella celebre del pestaggio.
Tra l'uno e l'altro c'era stato Il selvaggio di Lazslo Benedek (1953), altra pietra miliare nell'edificazione del mito Brando nell'immaginario collettivo maschile e femminile, oltre che spia sociologica in consistente anticipo sui tempi. All'incarnazione di una gioventù insofferente e randagia Brando regalò il meglio dell'arte introspettiva dell'Actor's studio e qualche anno dopo Andy Wahrol certificò, con alcune delle sue celebri serigrafie, l'ingresso nei must popolari del giubotto nero indossato dall'attore nel film.
Prima della fine del suo decennio d' oro, gli anni '50, Brando dà anche prova di versatilità con l'Antonio di un celebre Giulio Cesare (1953), il Napoleone di Desireè (1954) lo Sky Masterson di Bulli e pupe (1955) e il biondo tedesco di I giovani leoni (1958). Gli anni Sessanta saranno invece quasi solo una sequenza di prove mediocri, con l'eccezione della sua unica regia (I due volti della vendetta, 1961), di Riflessi in un occhio d'oro (1967) di John Huston e di La fuga (1966) di Arthur Penn.
Gli anni Settanta, che si inaugurano col "terzomondista" Queimada di Pontecorvo, ne segnano il clamoroso ritorno, grazie a due registi che lo impiegano con grande originalità in ruoli diversisissimi.
Francis Ford Coppola in Il padrino (1971) che gli vale il secondo Oscar, (quello che non andrà a ritirare per solidarietà con la causa dei pellerossa) e Bernardo Bertolucci nel controverso Ultimo tango a Parigi. Di quest' ultimo film, doloroso e romantico, il volto sfatto di Brando ("un Mito con la pancia", secondo Maria Schneider), il suo inimitabile modo negligè di indossare qualunque cosa e, perché no, la vertiginosa credibilità nell'interpretare una sequenza di sodomia, sono gli elementi di un successo senza confini e di un caso sociologico.
Il resto, tra anni '80 e '90, sono solo apparizioni miliardarie (un miliardo al minuto, per alcuni film) e a volte imbarazzanti, come in Superman (1978) e La formula (1980). Fa eccezione il Kurz di Apocalipse Now di Coppola (1979): nell'oscurità scolpita da Vittorio Storaro, con la testa rasata, Brando regala un saggio di recitazione da offrire alle scuole di cinema. Ma al mestiere amato-odiato l'attore offrirà ancora la misura e l'impegno di una maturità malinconica in film come Un'arida stagione bianca (1989) o Don Juan De Marco (1995), segnati dal suo volto e da piccoli gesti e movenze che sono da soli momenti di puro cinema. Prima di morire (il 2 luglio del 2004) si era imbarcato in un nuovo progetto: un film intitolato Brando and Brando.
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